lunedì 14 novembre 2011

La Marchesa e i contadini

Tudia è un nome arabo che significa gelso. Cinquant'anni fa era al centro di due milioni e mezzo di metri quadri coltivati a grano e lavorati da duecento "servi della gleba". Oggi ci sono vigne, uliveti, frutteti e al timone di tutto c'è una donna di 87 anni che dal 1965 a oggi è riuscita a trasformare un feudo in un'azienda agricola
Il fiume è quasi in secca. In questa parte della Sicilia prende il nome di Imera, ma poco più in là - dove attraversa le miniere di zolfo abbandonate - lo chiamano Salso. Con le sue curve passa e ripassa sotto i lunghi viadotti dell'autostrada, sfiora i binari delle ferrovia, poi si perde ai piedi di una montagna dove, all'improvviso, appare il paese di Resuttano. Una volta faceva seimila abitanti, adesso sono poco più di duemila. Dissanguato dall'emigrazione, sembra un villaggio fantasma. Resuttano è territorio di Caltanissetta ma, al bivio più su, è già Palermo con la sua provincia. Da lì parte una delle tante trazzere, vecchie vie di trasmigrazioni per greggi e mandrie, che porta a Tudia.

Siamo esattamente all'incrocio fra le tre valli - la Val di Noto, la Valdemone e la Val di Mazara - che nelle antiche mappe dividevano la Sicilia in parti eguali. Il sole batte forte, c'è profumo di grano nell'aria, la campagna che cambia colore dietro ogni tornante. Una discesa ripida che si butta verso il borgo di Recattivo, una salita fino a Portella del Vento, un'altra discesa sul torrente Coda di Volpe e in lontananza ecco, otto chilometri dopo Resuttano, il feudo di Tudia. La croce della chiesa sconsacrata è coperta di erbacce, la caserma dei carabinieri deserta, vuoti i silos per le sementi, i magazzini, le rimesse dei mezzi agricoli e in fondo il baglio in pietra, la maestosa masseria con la corte interna dove i padroni - nobili che venivano da Palermo - trascorrevano le loro estati. Tudia è nome arabo che vuol dire gelso. E due sono i gelsi che fanno ombra dietro il baglio, mescolati a palme e pini d'Aleppo, carrubi, peri, peschi.

Quando Scalfari e gli altri giornalisti dell'Espresso scesero qui 52 anni fa per descrivere "l'Italia che non cambia", tutt'intorno era un'immensa distesa gialla, due milioni e mezzo di metri quadrati senza confini, spighe dorate fino all'orizzonte e in mezzo loro, puntini neri, i contadini che si spaccavano la schiena dall'alba al tramonto per i padroni. Oggi ci sono 70 ettari di vigne, 32 ettari di ulivi, 8 ettari di frutteti, 5 ettari di pistacchi, orti, canali, laghetti. C'erano anche duecento schiavi che non ci sono più. I loro figli e i loro nipoti sono fuggiti per fame in Germania, in Belgio, nelle acciaierie di Solingen, nei giacimenti di carbone di Charleroi, nelle fabbriche di Milano e Torino. Solo alcuni di loro, dopo tanti anni, sono ancora qui a fare i contadini. Ci sono però sempre i padroni. I sopravvissuti e i discendenti di blasonate famiglie che dal Seicento, generazione dopo generazione, hanno ereditato terre e anche le vite degli uomini. I Moncada e i Filingeri, i De Spuches, i Tasca, i Cutò. Fino ai marchesi Di Salvo. Gli ultimi signori di Tudia.

Com'è cambiato il feudo un secolo e trenta anni dopo l'indagine di Franchetti e Sonnino? Cosa è rimasto del feudo dopo i reportage di Scalfari e degli altri giornalisti dell'Espresso? Il tempo passa e non passa mai in questa Sicilia dove i contadini non sono più contadini e i feudatari sono diventati imprenditori agricoli. Sono ancora loro i padroni. Ma sono padroni di tutto e padroni di niente.

Che cos'era Tudia ieri e cos'è Tudia oggi? Le foto di famiglia, impolverate, sono sistemate con cura alle pareti del suo studio. Muri spessi e soffitti altissimi, fuori il bollore della prima estate siciliana e dentro un fresco ristoratore: sembra una stanza dello scirocco, uno di quegli ambienti progettati dagli antichi mastri per trovare riparo alla calura più violenta. In realtà, una volta, questo studio era il magazzino per far maturare le olive. Dietro la scrivania c'è l'albero genealogico dei Li Destri della Castiglia, il ramo di madre di Giuseppina Di Salvo, quella che in intimità chiamano "la signora Giuseppina" ma che per i contadini di Tudia è sempre stata "la marchesa". Ha 87 anni e due occhi color smeraldo, si sorregge su un bastone. Ogni tanto fruga nella sua memoria, ogni tanto seppellisce i ricordi più crudeli.

E' lei, "la marchesa", la donna che ha segnato il passaggio di Tudia da accampamento di schiavi ad azienda agricola. Il feudo l'ha ereditato da suo padre Vittorio, che a sua volta l'aveva ereditato dal padre Liborio, diciotto figli generati e dodici arrivati in età adulta, dissipatori di ricchezze come tutti i nobili del tempo. Don Liborio era entrato in possesso di Tudia ai primi del Novecento quando un rampollo dei Cutò - con una grande passione per le ballerine parigine e molto bisognoso di denaro - glielo cedette in una notte. Da don Liborio a don Vittorio, il feudo e il grano, i padroni e i sotto, il baglio e il pagliaro, il frustino dei campieri e l'ingordigia dei preti, la sbirraglia sempre schierata contro i contadini, pane e cicoria, pane e cipolla. E poi, nel 1965, è arrivata lei, Giuseppina Di Salvo marchesa De Gregorio.
01 luglio 2011© Riproduzione riservata

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