mercoledì 19 settembre 2012

Il nostro bel Matrimonio d'Amore

                     Il nostro bel Matrimonio d'Amore                      



Un bel giorno, qualche giorno fa Sudhir, mi ha chiesto di sposarci. Ha detto pure "finalmente"

Ci amiamo tantissimo e sono molto felice che ci sposiamo.

Così abbiamo invitato i parenti più vicini e soprattutto tanti amici, da tante parti di Italia e del mondo.

E tanti tanti amici musicisti per ballare, cantare, suonare. Celebrazione. Che poi è il significato del mio nome.


Il regalo più bello è che veniate tutti a festeggiare e ricordarci ognuno di noi che siamo nati per gioire della vita, per ballare, per cantare e per lasciarci andare a questo fiume che ci trasporta che si chiama esistenza, vita e amore. 







martedì 15 novembre 2011

la via sufi a tudia


  19/20 NOVEMBRE   

ALKARYA  

                 MYSTIC                        HEARTBEAT'S RHYTHMS  

LA VIA SUFI DEL CUORE  

 

MUSICA CANTI DANZE TRANCE TRASCENDENZA

 

Alessandro Puglia violino sufi 

Eleonora percussioni

Kavì chitarra e voce                

Sudhir e Gila                                       

          meditazioni e trascendenza 

 





per esprimere il nostro amore per  la nostra terra  ,tra la terra e il cielo,  ci incontriamo a Tudia in un weekend  dedicato alla musica e alla trascendenza

Siete tutti invitati   

lunedì 14 novembre 2011

La storia presente

A metà anni Sessanta il feudo era in dissesto finanziario. La marchesa Giuseppina lo ha salvato, ha portato l'acqua, ha trattato con i contadini, ex schiavi e ora padroni di terre. Oggi Tudia ospita un moderno agriturismo e commercia prodotti bio. "E il figlio della marchesa - dicono in paese - è diventato più comunista di noi"




Il feudo non è più feudo da quando dalle valli è risalito il primo rombo di un trattore. Chi non è emigrato, chi non è andato via e ha voluto fare la stessa vita di suo padre e di suo nonno, anche in questo inferno siciliano è riuscito a seppellire per sempre il suo passato di patimenti.

Saro Meli, figlio di Mariano e nipote di Saro, uno di quelli che vivevano nei "pagliari". Prima suo padre e poi lui hanno continuato a coltivare la terra. Ma questa volta, la loro terra. I Meli l’hanno comprata all’inizio degli anni Sessanta e ci hanno campato dignitosamente già da due generazioni. L’elettrificazione delle campagne, l’attuazione della Riforma agraria, le prime macchine. Adesso Rosario, nipote di Rosario, che si è diplomato all’Istituto tecnico agrario di Caltanissetta, ha una grande azienda proprio sotto la chiesa sconsacrata del feudo di Tudia. Suo padre Mariano, che è morto da alcuni anni, diceva sempre: "Sissignori, sono un pidocchio riuscito che si è fatto con le sue mani. Pidocchio è l’insulto che mi ha gridato un figlio dei padroni che all’inizio tentò di portarmi via le terre accampando un diritto di proprietà. Abbiamo sopportato una vita, abbiamo chinato il capo per una vita, ma alla fine abbiamo vinto. Adesso con i padroni abbiamo in comune la terra. In più però noi sappiamo quanto vale un uomo e la sua dignità. Ecco perché noi cresceremo di più dei nostri padroni". I Meli hanno oggi hanno più di 60 ettari, ai confini di Tudia.

In verità Mariano, dimenticando le angherie subite dai don Liborio e dai don Vittorio, ha cominciato la sua nuova vita da contadino in società con l’ex padrona, la signora Giuseppina Di Salvo, "la marchesa". Era il 1965 quando lei ha preso in mano le sorti del feudo, travolto da un dissesto finanziario, e con le unghie e con i denti ha cercato di salvarlo. Ha portato l’acqua, ha fatto piantare i vigneti, ha voluto i peschi sulle gobbe della collina più lontana, ha combattuto fino allo stremo per non far morire Tudia. Oggi il feudo è ancora lei. E ogni mattina vuole vedere le sue vigne.

La scuola elementare non c’è più, e neanche la caserma dei carabinieri a cavallo, non c’è più la tabaccaia che si faceva la permanente ogni sabato giù in paese, la chiesa è coperta dai rovi, i magazzini abbandonati. Non ci sono più nemmeno i duecento schiavi di Tudia. Oggi qui, a otto chilometri da Resuttano, quaranta da Caltanissetta e centoquattro da Palermo, vivono la signora marchesa, il figlio Vincenzo "Sudir" De Gregorio e la sua compagna Gila Sinibaldi. Il baglio è diventato un bellissimo agriturismo. Dove fino a qualche decennio fa si ammassava il grano, adesso c’è una sala banchetti, un lungo tavolo coperto da ricotte fresche e pecorini primo sale, frittatine di zucchine, pomodori secchi, olive, cannoli. E vini bianchi e rossi del feudo di Tudia. In alcune bottiglie sono allineate essenze di erbe e di fiori, olio di calendula e olio di iperico. In altre ampolle, rosoli e liquori di finocchietto selvatico. In una parte della vecchia cantina c’è l’Hosho Center, uno stanzone enorme "dove si può meditare, cantare, danzare, stare a contatto con la natura".

Ma la vera sorpresa, nell’antico feudo degli schiavi, sono Brian e Nicole e Emy, ragazzi di vent’anni che vengono dagli Usa e dall’Inghilterra. Sono qui a Tudia da qualche settimana. Potano le viti, raccolgono melanzane, fanno marmellate, sbucciano piselli, preparano torte, puliscono attrezzi, riparano sedie, tagliano erba. Nell’ultimo anno di ragazzi come loro a Tudia ne sono passati più di cento. Canadesi. Polacchi. Cinesi. Francesi. Li chiamanoWwoofers, sono volontari giramondo per le fattorie biologiche dei cinque continenti. In cambio di vitto e alloggio offrono lavoro nei campi e nell’azienda agricola. Fuori da logiche mercantili, i Wwoofers sono arrivati anche in questa Sicilia alla ricerca del feudo che non c’è più e forse anche di se stessi.
La signora marchesa lancia uno sguardo sornione a Nicole, la bella ragazzina americana che serve a tavola la caponata. Il figlio Vincenzo intanto racconta il suo sogno: una Tudia che in futurò diventerà un po’ business e un po’ comune. C’è già l’orto biotantrico, ogni domenica vendono i loro prodotti nella piazza Marina di Palermo. A Tudia, oggi si può "adottare" anche un ulivo o un intero filare. E, in autunno, ricevere il suo olio profumato.

I vecchi contadini, che ci hanno accompagnato in questo viaggio nel cuore dell’isola tanto tempo dopo Franchetti e Sonnino e tanto tempo dopo i giornalisti dell’Espresso, hanno rivisto la loro Tudia e sorridono con malinconia. Uno di loro ci dice: "Il figlio della marchesa è diventato più comunista di noi. E’ proprio vero che il mondo si è capovolto". Così abbiamo lasciato il feudo dove una volta c’erano gli schiavi.


01 luglio 2011

© Riproduzione riservata

La Marchesa e i contadini

Tudia è un nome arabo che significa gelso. Cinquant'anni fa era al centro di due milioni e mezzo di metri quadri coltivati a grano e lavorati da duecento "servi della gleba". Oggi ci sono vigne, uliveti, frutteti e al timone di tutto c'è una donna di 87 anni che dal 1965 a oggi è riuscita a trasformare un feudo in un'azienda agricola
Il fiume è quasi in secca. In questa parte della Sicilia prende il nome di Imera, ma poco più in là - dove attraversa le miniere di zolfo abbandonate - lo chiamano Salso. Con le sue curve passa e ripassa sotto i lunghi viadotti dell'autostrada, sfiora i binari delle ferrovia, poi si perde ai piedi di una montagna dove, all'improvviso, appare il paese di Resuttano. Una volta faceva seimila abitanti, adesso sono poco più di duemila. Dissanguato dall'emigrazione, sembra un villaggio fantasma. Resuttano è territorio di Caltanissetta ma, al bivio più su, è già Palermo con la sua provincia. Da lì parte una delle tante trazzere, vecchie vie di trasmigrazioni per greggi e mandrie, che porta a Tudia.

Siamo esattamente all'incrocio fra le tre valli - la Val di Noto, la Valdemone e la Val di Mazara - che nelle antiche mappe dividevano la Sicilia in parti eguali. Il sole batte forte, c'è profumo di grano nell'aria, la campagna che cambia colore dietro ogni tornante. Una discesa ripida che si butta verso il borgo di Recattivo, una salita fino a Portella del Vento, un'altra discesa sul torrente Coda di Volpe e in lontananza ecco, otto chilometri dopo Resuttano, il feudo di Tudia. La croce della chiesa sconsacrata è coperta di erbacce, la caserma dei carabinieri deserta, vuoti i silos per le sementi, i magazzini, le rimesse dei mezzi agricoli e in fondo il baglio in pietra, la maestosa masseria con la corte interna dove i padroni - nobili che venivano da Palermo - trascorrevano le loro estati. Tudia è nome arabo che vuol dire gelso. E due sono i gelsi che fanno ombra dietro il baglio, mescolati a palme e pini d'Aleppo, carrubi, peri, peschi.

Quando Scalfari e gli altri giornalisti dell'Espresso scesero qui 52 anni fa per descrivere "l'Italia che non cambia", tutt'intorno era un'immensa distesa gialla, due milioni e mezzo di metri quadrati senza confini, spighe dorate fino all'orizzonte e in mezzo loro, puntini neri, i contadini che si spaccavano la schiena dall'alba al tramonto per i padroni. Oggi ci sono 70 ettari di vigne, 32 ettari di ulivi, 8 ettari di frutteti, 5 ettari di pistacchi, orti, canali, laghetti. C'erano anche duecento schiavi che non ci sono più. I loro figli e i loro nipoti sono fuggiti per fame in Germania, in Belgio, nelle acciaierie di Solingen, nei giacimenti di carbone di Charleroi, nelle fabbriche di Milano e Torino. Solo alcuni di loro, dopo tanti anni, sono ancora qui a fare i contadini. Ci sono però sempre i padroni. I sopravvissuti e i discendenti di blasonate famiglie che dal Seicento, generazione dopo generazione, hanno ereditato terre e anche le vite degli uomini. I Moncada e i Filingeri, i De Spuches, i Tasca, i Cutò. Fino ai marchesi Di Salvo. Gli ultimi signori di Tudia.

Com'è cambiato il feudo un secolo e trenta anni dopo l'indagine di Franchetti e Sonnino? Cosa è rimasto del feudo dopo i reportage di Scalfari e degli altri giornalisti dell'Espresso? Il tempo passa e non passa mai in questa Sicilia dove i contadini non sono più contadini e i feudatari sono diventati imprenditori agricoli. Sono ancora loro i padroni. Ma sono padroni di tutto e padroni di niente.

Che cos'era Tudia ieri e cos'è Tudia oggi? Le foto di famiglia, impolverate, sono sistemate con cura alle pareti del suo studio. Muri spessi e soffitti altissimi, fuori il bollore della prima estate siciliana e dentro un fresco ristoratore: sembra una stanza dello scirocco, uno di quegli ambienti progettati dagli antichi mastri per trovare riparo alla calura più violenta. In realtà, una volta, questo studio era il magazzino per far maturare le olive. Dietro la scrivania c'è l'albero genealogico dei Li Destri della Castiglia, il ramo di madre di Giuseppina Di Salvo, quella che in intimità chiamano "la signora Giuseppina" ma che per i contadini di Tudia è sempre stata "la marchesa". Ha 87 anni e due occhi color smeraldo, si sorregge su un bastone. Ogni tanto fruga nella sua memoria, ogni tanto seppellisce i ricordi più crudeli.

E' lei, "la marchesa", la donna che ha segnato il passaggio di Tudia da accampamento di schiavi ad azienda agricola. Il feudo l'ha ereditato da suo padre Vittorio, che a sua volta l'aveva ereditato dal padre Liborio, diciotto figli generati e dodici arrivati in età adulta, dissipatori di ricchezze come tutti i nobili del tempo. Don Liborio era entrato in possesso di Tudia ai primi del Novecento quando un rampollo dei Cutò - con una grande passione per le ballerine parigine e molto bisognoso di denaro - glielo cedette in una notte. Da don Liborio a don Vittorio, il feudo e il grano, i padroni e i sotto, il baglio e il pagliaro, il frustino dei campieri e l'ingordigia dei preti, la sbirraglia sempre schierata contro i contadini, pane e cicoria, pane e cipolla. E poi, nel 1965, è arrivata lei, Giuseppina Di Salvo marchesa De Gregorio.
01 luglio 2011© Riproduzione riservata

quando i parlamentari erano persone serie

E' il 1876, Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti viaggiano nel Sud Italia e ne raccontano in una celebre relazione la terribile miseria. Nel 1959 i giornalisti dell'Espresso seguono le loro tracce e scoprono che niente è cambiato. Noi siamo tornati oggi a Tudia, luogo simbolo della Sicilia, e possiamo documentare una storia diversa

Che cos'è la Repubblica? "Non ci sono mai stato". Qual è la capitale d'Italia? "Non lo so". Ha mai visto il mare? "No". Ha mai mangiato pesce? "Qualche sarda". E' mai stato al cinema? "Marcellino. In piazza. Quando ci fu l'Annunziata". Damiano Gentile, contadino di Tudia, in Sicilia.

Così, più di cinquant'anni fa, cominciava una grande inchiesta dell'Espresso sugli schiavi di un antico feudo al centro dell'isola, una magnifica masseria sulla cima della collina e intorno quaranta capanne di fango e paglia dove sopravvivevano duecento servi della gleba. Tiranneggiati da baroni e marchesi, sovrastanti e campieri, i contadini di Tudia nella metà del secolo scorso erano prigionieri in un mondo fuori dal mondo.
I giornalisti dell'Espresso s'inoltrarono nel cuore della Sicilia per ripercorrere, ad 84 anni di distanza, lo stesso itinerario che avevano seguito appena dopo l'Unità d'Italia Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, due intellettuali della Destra storica autori di una memorabile indagine sulle miserabili condizioni sociali e politiche del Mezzogiorno.

Che cosa è cambiato a Tudia? Che cosa è cambiato in Sicilia? Grandi inviati come Eugenio Scalfari e Nicola Caracciolo, Gianni Corbi e Livio Zanetti, si posero queste domande incontrando i figli e i nipoti dei mezzadri interrogati otto decenni prima. Non era cambiato niente. Una tragica immobilità avvolgeva ancora il feudo. Gli schiavi erano ancora lì, rinchiusi nei loro tuguri che dividevano con muli e maiali. "L'Africa in casa", titolò L'Espresso del 26 aprile 1959.

La testimonianza di Damiano Gentile, contadino analfabeta di Tudia, raccoglieva ancora tutte le sofferenze di quei siciliani del 1876. Che cos'è la Repubblica? "Non ci sono mai stato". Qual è la capitale d'Italia? "Non lo so". Ha mai visto il mare? "No". Ha mai mangiato pesce? "Qualche sarda". E' mai stato al cinema? "Marcellino. In piazza. Quando ci fu l'Annunziata". Noi, siamo andati a raccontare Tudia oggi. Un ritorno. Un altro ritorno.

01 luglio 2011